Morto Franco Cordero, il giurista letterato che narrava storie
Franco Cordero appartiene alla tradizione italiana di quei giuristi che si sono dedicati non solo a opere tecniche e saggistiche ma anche alla scrittura narrativa con un culto particolare per la lingua italiana. Il primo nome a cui viene facile accostarlo è quello di Salvatore Satta, senza dimenticare che anche Alberto Arbasino ebbe una formazione giuridica. Cordero, nato a Cuneo nel 1928 e morto l’8 maggio, professore di Procedura penale a Trieste, Milano, Torino, infine alla Sapienza di Roma, fu però anche il giurista-scrittore più impegnato sul piano politico-civile soprattutto in coincidenza con gli anni del potere berlusconiano, che produssero puntuali editoriali su «la Repubblica», caratterizzati non solo dalla raffinata argomentazione in punta di diritto e di morale, ma anche dalla fantasiosa invenzione onomastica (il Signor B. diventa Silvius Magnus Fraudolentus, il Re Lanterna, il Caimano ripreso da Nanni Moretti nel film eponimo). La più nota ricostruzione di quel periodo è consegnata al memoriale Le strane regole del Signor B. (Garzanti, 2003).
Viaggiatore inquieto e coltissimo nella filosofia del diritto come nella politica, nella storia delle religioni e nei labirinti teologici, con Gli osservanti, saggio sulle origini dei sistemi penali uscito presso Giuffrè nel 1967, finì per essere accusato di eterodossia e costretto nel 1972 a lasciare l’Università Cattolica di Milano. La sua è stata una lunga vita di scavo, di riflessione e di scrittura spesso fluviale, dal timbro discorsivo severo e ironico. In Morbo italico (Laterza, 2003), nel solco del Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani di Leopardi, tracciò un ritratto impietoso del nostro carattere nazionale di sudditi in cerca di padrone e terrorizzati dalla libertà, attratti più dalla farsa che dalla tragedia, anarcoidi e insieme conformisti. «La commedia italiana spesso disgusta ma non annoia mai», ha scritto. Cordero era un maestro dell’invettiva.
Dell’autore di una decina di romanzi, quel che colpisce è la formidabile capacità di visione fantastica (ma sempre in stretta analogia con il presente). E l’autocontrollo stilistico: «Incredibile quante parole escrescano, da potare; ogni taglio è puro guadagno», scrisse ne L’armatura (Garzanti, 2007), romanzo storico-picaresco di ambientazione settecentesca che racconta i tre anni di peripezie vissute dal giovane maestro d’arti Fert nella Marca d’Oriente. La vena di particolare realismo magico, nel continuo intreccio dei riferimenti eruditi, tra racconto e riflessione, tra sacro e profano, fu molto precoce in Cordero e con Opus (Einaudi, 1972) si rivelò forse al meglio narrando la vicenda di padre Mofa, 46 anni, sin da giovanissimo seguace dell’Ordine, il quale si accorge, dopo una lunga malattia, di aver perduto la fede o forse di non averla mai avuta. Sono probabilmente queste costanti del suo narrare che ritroveremo anche ne La tredicesima cattedra, romanzo dal sapore echiano e borgesiano (ambiente universitario con ossessione bibliotecaria) in uscita presso La nave di Teseo. Penultima tessera di un immenso mosaico intellettuale e creativo solo apparentemente centrifugo. L’ultima? Come annuncia Elisabetta Sgarbi, una nuova edizione del libro «ribelle» Gli osservanti.