La testimonianza di Massimo Giannini, il direttore de «La Stampa» in terapia intensiva
«Scusate se riparlo di me. Oggi “festeggio” quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ospite ingrato che mi abita dentro». Comincia così l’editoriale del direttore Massimo Giannini sulla Stampa di oggi. Una partenza in punta di piedi, per parlare del virus non da commentatore, non da esperto, ma da malato. Un paziente di 58 anni che ha contagiato anche sua madre, novantenne, malata oncologica, per la quale non c’è servizio domiciliare che possa supportarla. Giannini da cinque giorni è anche in terapia intensiva: quando è entrato in questo reparto erano in sedici, perlopiù ultrasessantenni; ora sono in 54, in prevalenza 50/55enni.
Il suo racconto è pulito, come un cronista sa fare. Scrive che è «collegato ai tubicini dell’ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro». La descrizione gli serve a dire un’altra cosa: «Il Covid è infido, è silente, ma fa il suo lavoro: non si ferma mai e ha un solo scopo: riprodursi, riprodursi, riprodursi. Meglio se in organismi giovani, freschi, dinamici».
Giannini arriva presto al punto. «Ci siamo dimenticati tutto. Le bare di Bergamo, i vecchi morenti e soli nelle Rsa, le foto simbolo di quei guerrieri in corsia stravolti dal sacrificio, i murales con la dottoressa che tiene in braccio l’Italia ammalata, l’inno dai balconi. Possibile? Possibile». E al gioco dello scarica barile replica: «Non recrimino, non piango. Vorrei solo un po’ di serietà». La serietà che chiedono tutti gli italiani. Perché trentaseimila morti (36.474 a ieri) non siano stati vani.