L'eredità di Enzo Mari
Ogni umano, in quanto figlio, è un erede.
Massimo Recalcati
È morto oggi nostro padre. Enzo Mari è stato per tanti di noi un padre-Maestro: una persona burbera, difficile, ma anche presente, importante, pregnante. Una di quelle figure che ti tormentano anche quando non ci sono più.
Ma quale eredità ci ha lasciato un padre così impegnativo? Qual è il peso delle sue parole e dei suoi progetti?Enzo Mari è nato a Cerano, Piemonte, nel 1932. Negli anni Cinquanta ha frequentato l’Accademia di Brera approfondendo temi legati all’arte, la letteratura, la filosofia. Dal 1956 cominciò ad applicare le sue conoscenze nel campo della progettazione industriale. All’epoca non esisteva una figura professionale specifica: nell’industria vi erano dei professionisti, spesso architetti, che applicavano la loro capacità di disegno nel campo industriale.
Mari si trovò quindi a Milano, città cosmopolita, circondato da una borghesia illuminata e nel periodo dell’imminente boom economico. Importante per lui fu l’incontro, cercato, con diversi piccoli imprenditori-artigiani, bisognosi di trovare nuovi mercati e con la voglia di riscattarsi dalla mostruosità della guerra e dalle sue macerie. Iniziò a lavorare per Danese e da lì collaborò con le più importanti aziende del design italiano del dopoguerra.
Mari ha costruito la sua filosofia progettuale inserendosi pienamente nella società di fine Novecento: i suoi princìpi base si fondavano su una fede nel progresso lineare, sulla pianificazione razionale, su un approccio filo-scientifico all’arte.Ha raccolto l’ideale positivista di fine secolo sposandolo con le idee marxiste a cui è sempre rimasto profondamente legato. Ed è proprio questa una delle specificità del suo mondo progettuale: fare design è fare politica. Non si progetta solo in funzione di un bisogno, non basta che una parte della società chieda di rispondere a delle esigenze pratiche o simboliche per legittimare un progetto.«I forni crematori nei campi di concentramento furono progettati perché richiesti da una parte sociale: era legittimo progettarli o non era legittimo?».Il designer ha un ruolo politico, ogni sua azione, ogni suo progetto pone questioni morali con il resto della società e con se stessi.
Questo approccio rigoroso al progetto è stato figlio di una “società solida” caratterizzata da forti simboli identitari e ideologie politiche ben definite. Non poteva dunque che trovare il suo punto di rottura quando la società compatta di fine Novecento ha cominciato a trasformarsi: la crisi delle ideologie e l’affermarsi di un pensiero narcisistico e consumistico hanno portato Mari ad una radicale critica nei confronti dei nuovi fenomeni sociali.È stato molto critico anche con le nuove generazioni di designer e in qualche caso anche con il design stesso. Qui potremmo vedere il limite del suo approccio dogmatico, rigoroso e poco propenso alla riscrittura, ma anche, allo stesso tempo, la sua grande forza nel tenere dritta la barra su alcune questioni di fondo.
La “morte delle ideologie” ha portato alla nascita di una nuova ideologia nichilista basata sul diritto al desiderio: prodotti emozionanti ed emotivamente usa e getta, cose che non appena hanno svolto la loro funzione eccitante sono pronte ad essere sostitute. Mari di fronte a questo ci riporta alle nostre responsabilità: «perché progettiamo? A quale scopo creare nuove forme? Perché produrre oggetti sempre nuovi e diversi?».Trovare un perché è l’unica strada per sfuggire all’alienazione e a alla dittatura delle emozioni. Mari non ci ha lasciato solo degli oggetti capolavoro, pubblicazioni importanti o mostre indimenticabili: Mari ci ha lasciato in eredità il bisogno di dare un senso e la certezza che quel senso possa essere trovato.