Giornata della memoria: un bambino sopravvissuto ad Auschwitz ...
In occasione della Giornata della Memoria pubblichiamo l'articolo "Il bambino ritrovato" di Riccardo Michelucci, tratto dagli archivi di Focus Storia.
Sopravvissuto. «Non ricordo in quanti del nostro convoglio entrarono nel lager. Io feci di tutto per rimanere con la nonna. Le Ss ci ordinarono di disporci in fila per cinque e ci scortarono lungo una strada che dalla rampa di arrivo si inoltrava in un bosco. C'erano dei reticolati che, in seguito, seppi essere elettrificati ad alta tensione. Dopo un percorso che allora mi sembrò lungo, perché eravamo sfiniti dalla fame e dalla sete, arrivammo a un grande caseggiato destinato alla disinfezione dei prigionieri».
Luigi Ferri è stato uno dei pochi bambini sopravvissuti ad Auschwitz. Venne internato ad appena 11 anni a Birkenau, il campo di lavoro con annesso il centro di sterminio dove vennero assassinati nelle camere a gas almeno 860mila ebrei provenienti da tutta Europa.
Testimone, ma traumatizzato a vita. Insieme a Primo Levi fu anche tra i pochissimi prigionieri italiani presenti all'interno del campo il giorno della liberazione, il 27 gennaio 1945. «Non riuscivo ancora a credere di essere libero e vivo. A volte provavo la stessa sensazione di terrore dei giorni prima della liberazione», racconta.
Pochi mesi dopo il ritorno in libertà, Ferri ebbe il coraggio di descrivere a una giuria polacca i crimini cui aveva assistito durante la sua prigionia. Parlò dell'esistenza delle camere a gas in una deposizione ufficiale di fronte alla Commissione d'inchiesta polacca di Cracovia. Ma subito dopo fece perdere le sue tracce, relegando nell'oblio l'esperienza che aveva segnato per sempre la sua vita. Provò a scordarsi di avere il numero B7525 tatuato sul braccio sinistro e rimase in silenzio, per cercare di allontanare quel trauma indicibile e costruirsi un'esistenza normale.
Scomparso. Col tempo Luigi Ferri è diventato quello che lo storico Bruno Maida, autore di approfondite ricerche sui minori vittime dei nazisti, ha definito "il bambino scomparso di Auschwitz", ovvero l'unico dei 25 italiani sopravvissuti di età inferiore ai 14 anni di cui non si era saputo più niente.
Nelle pubblicazioni ufficiali del Museo di Auschwitz è l'italiano più citato dopo Primo Levi, ma per decenni gli storici, gli studiosi e i centri di ricerca hanno setacciato invano gli archivi per trovarlo e raccogliere la sua testimonianza, che è una delle poche mancanti anche nel monumentale archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea, a Milano.
UN'ALTRA PERSONA. Oggi, superati i novant'anni, Ferri ha accettato di parlare del bambino che fu con Frediano Sessi, uno dei più autorevoli studiosi italiani della Shoah, che l'ha raccontata in un libro: Il bambino scomparso. Una storia di Auschwitz (Marsilio).Sessi ci ha spiegato di essere arrivato a Luigi Ferri quasi per caso, avvicinandolo in punta di piedi. «Frequento gli archivi di Auschwitz ormai da più di trent'anni e tempo fa stavo cercando testimonianze scritte e orali di ex deportati italiani che, dopo la liberazione del campo, erano rimasti nei padiglioni attrezzati a infermeria per recuperare le forze e rimettersi in salute», racconta lo studioso. «Anche Ferri rimase a vivere per un periodo tra i blocchi infermeria del campo base e nell'archivio mi sono ritrovato per le mani il materiale inedito che lo citava. Gli ho scritto una lettera per chiedergli se acconsentisse a raccontare ulteriori particolari sulla sua vicenda ad Auschwitz. Lui ha accettato a patto che parlassimo soltanto di quel bambino che ha confinato in un angolo buio della sua mente, non dell'adulto che è diventato dopo».
Sdoppiamento. Sessi si è trovato di fronte un uomo molto anziano con una memoria del tutto intatta, che gli ha raccontato la storia di quel bambino come se fosse un'altra persona: «Per non impazzire, e per cercare di ricostruirsi una vita normale, ha dovuto quasi sdoppiarsi nascondendo la sua tragedia. Il tempo non ha lenito le sue ferite. Ripensare a quei giorni è tuttora un'esperienza così sconvolgente che poi necessita di qualche giorno per fargli confinare nuovamente quei ricordi nel buio in cui li ha lasciati».
CON LA NONNA. Figlio di una donna cattolica originaria di Fiume e di Julio Frisch, ebreo di lingua tedesca, Luigi Ferri fu catalogato come "ariano". Ma il 1° giugno del 1944 salì volontariamente sul treno per Auschwitz per non allontanarsi dalla nonna ebrea, che venne arrestata in una retata nazifascista a Trieste. Un ufficiale gli disse chiaramente che poteva restare a casa ma lui la seguì, costringendo i carcerieri a portarlo al binario: la nonna era il suo unico punto di riferimento e lui non voleva in alcun modo separarsi da lei. «Qualcuno ha scritto di me che ebbi il coraggio di non abbandonare la nonna, come se da così piccolo avessi già la consapevolezza di quello che accadeva agli ebrei deportati e il mio fosse un gesto emblematico di grande amore.
Ma non fu così».
Il medico salvavita. Luigi era un bambino sveglio, che sapeva come cavarsela ed era già bilingue, perché conosceva molto bene il tedesco. Fu senz'altro favorito dalla padronanza della lingua dei carcerieri, perché nel lager si poteva morire anche soltanto per non aver capito un ordine.
Quando arrivò ad Auschwitz, i primi di luglio del 1944, nel lager regnava il caos assoluto. I nazisti stavano sterminando gli ebrei ungheresi a un ritmo forsennato, circa 25mila al giorno. Lui si salvò perché ebbe la fortuna di imbattersi nel dottor Otto Wolken, un detenuto ebreo austriaco che nella quarantena maschile di Birkenau sostituiva il medico delle Ss e godeva di una certa libertà di movimento. Senza di lui il piccolo Luigi non sarebbe mai uscito vivo dal campo.
IL VERO EROE. Wolken divenne il suo angelo custode: gli spiegò le regole essenziali per cercare di sopravvivere, si preoccupò di rifornirlo di cibo e di acqua, andò a trovarlo spesso per rincuorarlo. «Mi ripeteva di non farmi illusioni», racconta Ferri, «e mi diceva: la dote che devi sviluppare di più è l'attenzione a ogni pericolo incombente, che non sempre potrai allontanare da te». Tra i due nacque un affetto profondo che proseguì dopo la liberazione, anche perché Ferri era rimasto orfano e il medico austriaco divenne per lui un secondo padre.
In realtà Otto Wolken rappresentò un'ancora di salvezza per molti deportati ed è il vero eroe di questa storia. Un uomo con un profondo senso della giustizia che aggiornava di nascosto un registro dei fatti terribili che accadevano nella quarantena maschile: gli arrivi e i trasferimenti, le malattie, le fucilazioni e le selezioni per la camera a gas, oltre al vero motivo dei decessi dei deportati. Quando si sapeva ancora ben poco sul sistema concentrazionario di Auschwitz, svelò ai giudici del processo di Cracovia molti dettagli sull'organizzazione e la vita dei prigionieri, indicò con precisione i nomi dei responsabili e infine lasciò documenti preziosi negli archivi dell'ex campo di concentramento. Wolken era stato incaricato di compilare rapporti scritti per i medici delle Ss ed era quindi autorizzato a scrivere. Di notte riponeva i documenti clandestini sotto i materassi dell'infermeria e quando aveva sentore di qualche rischio scavava per nasconderli sotto terra. In calce al libro di Sessi è riportata la raccapricciante cronaca inedita dal campo di Birkenau, compilata da Wolken proprio sulla base di quegli appunti.
RITORNO AD AUSCHWITZ. Nel 1967 il medico tornò ad Auschwitz insieme a Ferri per l'inaugurazione del monumento internazionale alle vittime del campo, alla quale presenziarono circa 200mila persone, tra cui molti ex deportati. "Il bambino scomparso" aveva allora 34 anni e quel ritorno fu per lui un'esperienza assai traumatica. «Ho pianto da morire, mi ha sconvolto solo il fatto di essere di nuovo lì», ricorda.
All'epoca accettò di rilasciare un'intervista a un settimanale tedesco, si fece fotografare all'interno di una baracca di legno della quarantena maschile e accanto alle rovine del crematorio ma poi sparì di nuovo, facendo perdere le sue tracce per altri cinquant'anni.
Fotogallery Le foto storiche di Auschwitz