I deportati “schiavi di Hitler” Il Trentino Nuovo
Una sentenza del Tribunale di Trento, prima in Italia, ha riconosciuto l’indennizzo a un ex militare trentino degli Alpini deportato in Germania dopo l’8 settembre 1943 e costretto ai lavori forzati nella Germania del Terzo Reich. La sentenza del Tribunale trentino pone sul medesimo piano internati e vittime di guerra.
Nel lento deposito del frastuono mediatico, che spesso accompagna eventi come le celebrazioni del “Giorno della Memoria” o di quello del “Ricordo”, vengono in superficie talvolta atti di straordinario significato, che dicono molto di più di tante dichiarazioni effimere e di tanta vuota retorica. Fra questi rientra, senza dubbio alcuno, l’Ordinanza n. 4094/2023 del 3 settembre 2023 emessa dal Tribunale di Trento e firmata dal giudice Giuseppe Barbato. Si tratta della prima decisione presa nel nostro Paese, dopo la promulgazione dell’art.43 del D.L. 36/2022, con il quale è stato istituito un “fondo” presso il Ministero dell’Economia e Finanze per il ristoro dei danni patiti dalle vittime di guerra e contro l’umanità compiuti dal III Reich, durante la seconda guerra mondiale.
Al di là del caso specifico – relativo peraltro a un alpino trentino preso prigioniero dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, deportato in Germania e costretto a lavorare in condizioni di sostanziale schiavitù, riportandone poi danni permanenti fisici e psichici – ciò che colpisce di questa sentenza, che ha visto soccombente la Repubblica Federale di Germania e il nostro Ministero dell’Economia e delle Finanze, responsabile del citato ristoro dei danni subiti dalle vittime del III Reich, è il disseppellimento della Memoria. Nel riconoscere infatti il dovere del risarcimento a quel prigioniero di guerra, il Tribunale compie una scelta fondamentale, quella cioè di riconoscere “alla deportazione ed all’assoggettamento ai lavori forzati in condizioni di sostanziale schiavitù” dei militari italiani la caratteristica di crimine contro l’umanità, un reato che non ha prescrizione e che si fonda su norme del diritto internazionale con effetto anche retroattivo e che quindi può e deve trovare un suo risarcimento.
Come noto, il trattamento inferto ai nostri soldati presi prigionieri dalla Wehrmacht dopo la resa armistiziale è decisamente crudele e drammatico. Gli italiani sono “traditori” e come tali vanno trattati. I primi progetti tedeschi per la cattura e l’internamento dei militari italiani risalgono ancora al 28 luglio 1943, cioè tre giorni dopo la caduta del regime fascista.
Berlino è consapevole da tempo dei tentativi italiani di sganciarsi dall’alleanza e di porre fine ad una guerra ormai insopportabile, sia sotto il profilo delle perdite umane, come economiche e materiali. La firma dell’armistizio produce però una situazione nuova e ricca di complicazioni, anche a causa della vile fuga del re e del governo che lascia il Paese e le Forze armate senza alcuna disposizione. Non è ancora stata formulata una dichiarazione di guerra del regno d’Italia contro la Germania e quindi i soldati rastrellati e detenuti come vanno considerati, non essendo formalmente nemici? La soluzione adottata dai tedeschi risiede nel concetto di “franco tiratore”, ovvero di attentatore privo di riconoscimento militare. Si tratta di una condizione che non ha alcuna tutela legale e formale e che quindi espone l’individuo ad ogni angheria e sopruso.
Poi, a dichiarazione di guerra avvenuta, è Hitler stesso che il 20 settembre 1943, in preda all’ira per il “tradimento” degli italiani, impone ai prigionieri italiani il cambio di condizione giuridica: da “prigionieri di guerra” ad “internati”. È questa una condizione profondamente diversa, perché l’internato non è sottoposto a nessun regime convenzionale, come quello stabilito nel 1907 all’Aja e nel 1929 a Ginevra appunto sui prigionieri di guerra ed è quindi lasciato alla mercè dei suoi custodi. L’internato è insomma in una sorta di limbo giuridico segnato dal totale arbitrio dei suoi aguzzini. La decisione tedesca in tal senso è così rigida da opporsi perfino, il 20 novembre 1943, alla richiesta della Croce Rossa Internazionale di poter assistere i prigionieri italiani. Questi sono solo degli internati (“Italienische Militärinternierte” – I.M.I.) e come tali non possono rientrare nel concetto giuridico di prigioniero di guerra e nelle tutele, seppur minime, ad esso connesse.
Nel frattempo ha preso corpo quello “Stato fantoccio”, voluto da Hitler, che passa alla storia con il pomposo nome di Repubblica Sociale Italiana. È questa che si autoproclama “potenza tutrice” degli internati italiani e ciò lascia ulteriore mano libera all’oppressione nazista. Le condizioni di vita dei “badogliani”, come vengono apostrofati i nostri internati, peggiorano rapidamente e senza possibilità di intervento, aiuto o soccorso da parte delle autorità della R.S.I. Queste guardano solo a coloro i quali hanno accettato di arruolarsi sotto le bandiere del rieditato “mussolinismo” e per tutti gli altri – il 70% degli ufficiali e il 78% dei soldati prigionieri – esiste solo l’abbandono, la fame, le malattie ed il lavoro in schiavitù.
La sentenza di Trento fa quindi giustizia. Riconosce cioè la condizione degli internati e li pone sullo stesso piano delle vittime di guerra, consentendo quindi di poter ottenere per i diretti interessati o i loro eredi i benefici economici previsti dal “Fondo” istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanza. Ma al contempo aiuta a ribadire un concetto mai sufficientemente sottolineato e cioè quello della complicità della R.S.I. nella detenzione e nelle condizioni disumane di trattamento degli internati italiani. La sentenza invita quindi anche ad aprire uno dei tanti capitoli di un libro – quello della nostra Memoria di italiani – che rimane chiuso da troppo tempo. Ricordare serve solo se si esce dalla dimensione celebrativa e si entra in quella della coscienza e ciò vale per questa vicenda come per molte altre.
Il prossimo 10 febbraio si celebra il “Giorno del Ricordo”, in onore delle vittime delle foibe titine. Si tratta di un atto prezioso ed importante che anche qui chiama in campo le nostre responsabilità nel trattamento incivile imposto ai nostri connazionali in fuga dalla vendetta slava, ai quali riservammo un’accoglienza ai limiti del minimo accettabile, per poi buttare la polvere sotto il tappeto, sperando che il silenzio potesse cancellare ricordi ed appunto responsabilità.
Fino a quando non faremo i conti con tutta la nostra storia, ivi compresa quella delle efferatezze in Jugoslavia come in Africa, non potremo guardare con speranza al senso della storia ed al suo apporto per la formazione di una nuova coscienza civile in questo Paese.