Due anni senza Kobe Bryant, il gigante con un cuore italiano
Questo è il giorno in cui molti ripensano a dove si trovavano quando vennero raggiunti dalla notizia. Mike Sielski, giornalista del Philadelphia Inquirer, era andato ad accompagnare i figli piccoli a una partita di basket. Uno degli avversari del figlio aveva scritto sulle maniche, con il pennarello nero, un nome di quattro lettere: “Kobe”. Sielski scoprì poco dopo cosa era successo: il 26 gennaio 2020 Kobe Bryant, uno dei più grandi giocatori Nba di sempre, era morto in un incidente d’elicottero a Calabasas, Los Angeles. Con lui erano morti la figlia di 13 anni, Gianna, e altre sette persone.
“Non dimentichi una giornata come quella - ammette Sielski - non dimentichi una morte che ha fatto sbandare il mondo”. Sielski è cresciuto nella città dove Bryant, di ritorno dall’Italia, aveva cominciato la scalata che lo avrebbe portato nella Nba, e gli ha dedicato un libro, a metà tra il reportage e l’omaggio, The Rise - Kobe Bryant and the Pursuit of Immortality (St. Martin’s Press,), da cui emerge nella vita del Super Eroe del basket il legame costante tra Kobe e l’Italia. Non c’è solo il racconto dell’esperienza al seguito del padre, Joe, andato a giocare a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Di origine italiana è l’insegnante che lo ispirò a scuola, italoamericano il preparatore atletico, l’allenatore, il miglior compagno di squadra del liceo, il manager, gli amici, la cucina, i sogni, le parole.
L’Italia nel destino. L’arrivo nell’84 a Rieti, quando Kobe ha 6 anni. La mattina a scuola, a Lisciano, vicino al Terminillo, il pomeriggio a seguire gli allenamenti del padre. La madre, Pamela, che se ne va a correre dieci chilometri ogni giorno lungo le strade del paese. Sono gli anni della bolla esistenziale, in cui Kobe diventa Kobe. Un bambino come tanti, solo un pelino più sfrontato e gonfio di autostima, ma americano immerso nella provincia italiana, in un nucleo familiare simile a una piccola tribù. Kobe passa ore a vedere le videocassette di basket che il nonno gli spedisce dagli Stati Uniti, e poi, una volta sul campo, studia tutti i movimenti del padre, sempre al centro della scena, sempre marcato dagli avversari. Non si forma solo il “sentimento italiano” del campione. Ma tecnico, spirituale. Kobe resta incantato dai movimenti di Joe, in un processo di osmosi li interiorizza assieme all’idea che un giocatore possa essere destinato a essere il più grande, solo contro tutti. Ma rispetto all’archetipo, Kobe aggiungerà un elemento: la disciplina mentale, quella che aveva portato il padre a girovagare in Italia e in Europa. Italiana è l’insegnante di tecnica di scrittura, Jeanne Mastriano, che gli trasmette la passione per i classici, Dante, l’Odissea e la poesia, e il desiderio di rischiare: “Dovete spaventare voi stessi”. In una delle aule in cui insegnava, aveva appeso il poster di un David di Michelangelo, ma il genitore di uno studente aveva protestato: quella nudità appariva scandolasa. Mastriano coprì i testicoli con un post-it.
Italiano è l’allenatore che accogli il giovane Kobe al campus, Sonny Vaccaro. Il coach lo affina e gli consegna in eredità un modo di dire, in italiano, “Se Dio vuole”. Italiano è un altro allenatore, Phil Martelli, coach nel suo primo anno di basket al St. Joseph, così come Dan Pangrazio, compagno di squadra con cui Kobe dividerà i punti in campo e l’ultima fila su bus, e italiano di origine anche il suo preparatore a Philadelphia, Joe Carbone, ex culturista di un metro e sessanta. Kobe resterà un americano atipico, italiano per tutto il romanzo della sua vita, innamorato della semplicità della semplicità della provincia, dei modi diretti, delle strette di mano, gli abbracci, così poco americani, ma che lo rendono ancora più nostro. Un alieno sul parquet, ma uno dei nostri. E che finisce per rendere ancora più struggente il destino tragico di un immortale, e accettare che tutto, alla fine, sia stato “come Dio vuole”, scritto così, in italiano, come lo avrebbe pronunciato Kobe.