Thriller, paesaggi urbani, effetti speciali: un 'Macbeth' spericolato inaugura la Scala
La coppia più delittuosa della lirica, Macbeth e la sua Lady, sta ancora impregnando l’aria col veleno del suo carisma tossico quando dal pubblico di Sant’Ambrogio monta l’applauso finale. Durerà 12 minuti. Un buon successo, ma punteggiato da sonori “buhhh” rivolti allo sfrenatissimo regista Davide Livermore, ha accolto il Macbeth che ha inaugurato ieri la stagione della Scala. È una serata in cui si sente la voglia di rivincita dell’era post-lockdown, sancita dall’aggregarsi dell’arte italica: ci sono Verdi, il migliore melodramma ottocentesco e il prestigio della Scala. Si sta festeggiando il primo spettacolo completo dell’era pandemica, dispiegato con pienezza in palcoscenico e con la sala esaurita. È un ritorno alla normalità dopo stagioni ristrette, cancellate o distanziate. Dal podio Riccardo Chailly guida l’impresa con un senso calibrato dell’azione e un piglio estraneo a escandescenze gestuali.
Lady Macbeth è il soprano-star Anna Netrebko, primadonna seduttiva e diabolica. Macbeth è il baritono Luca Salsi, eccezionale per beltà di voce e acume interpretativo. È un grande uomo inquieto e istigato dalla consorte. Anche il resto del cast è solido, con Francesco Meli nella parte di Macduff e Ildar Abdrazakov in quella di Banco. La forza del capolavoro verdiano, ispirato a Shakespeare e alla sua tragedia sulla brama distruttiva del potere, non ha mai una stasi. La regia di Davide Livermore vive in due dimensioni. Una è la performance a cui il pubblico assiste in teatro, l’altra è reinventata da magie filmiche e digitali per i telespettatori di Rai 1. Grazie a trucchi tecnologici, diavolerie da videogame, microcamere inserite negli interni e muraglie virtuali sovrapposte e mescolate a strutture concrete, ciò che vediamo sui teleschermi differisce in parte da quanto avviene dal vivo. L’esempio più impressionante è la scena del sonnambulismo della Lady (un hit del quarto atto), che in tivù diventa una folle sospesa sull’abisso da brividi del vertice di un grattacielo, mentre in teatro cammina (ben arcionata) su un cornicione.
Fantasmagorico è il pastiche di effetti speciali, con l’esito di un thriller citazionista (Metropolis, Baz Luhrmann, Inception) lanciato tra i labirinti di una metropoli verticale. New York, ma non solo. Qualche sprazzo di un Oriente globalizzato alla Blade Runner fa pensare a Singapore, e certi paesaggi urbani sono scozzesi e londinesi. Garantita è la vertigine di squarci aerei e skyline. Nebbie, nuvolaglie, vetrate grigio-Armani, scale high-tech, fontane che sputano sangue. Dice Maurizio Cattelan, seduto in platea: “Questo lavoro dimostra perché ogni cent’anni è giusto reinventare l’arte”.
In principio avanza sulla scena un’automobile che emerge dai tronchi giganteschi di un bosco. L’incappottato Macbeth vi sta seduto accanto a Banco. Le streghe che vaticinano le profezie sono damazze neo-capitaliste o signore-manager. Macbeth canta le proprie aspirazioni al trono in un ascensore-prigione che occuperà spesso lo spazio scenico. Possente è l’entrata della Lady, stretta in un tailleur rosso e con sigaretta e whisky. Nella cavatina “Vieni, t’affretta…” parla di spingere il marito all’assassinio del sovrano. Non è una femmina: è una regina infernale. Sfarzoso è il salone del palazzo in cui si muove la coppia-monstre che sembra uscita dall’alta finanza contemporanea. O futuribile. O fantasy.
Con estro rutilante fino al barocchismo, Livermore immagina il crollo del dominio di un mondo controllato dal denaro. Denuncia un’avidità che divora sé stessa. I due campioni di perfidia sono miliardari con abiti griffati e dispendiosi. I sicari di Banco paiono loschi finanzieri stilizzati e chic. Il fantasma di Banco si mostra al suo carnefice come l’iperbolica proiezione di un volto in primo piano. Nel terzo atto la scena dei ballabili è restituita da una coreografia ruvida e squadrata da Daniel Ezralow, e a un tratto vi irrompe dentro la Netrebko. Anche lei si mette a danzare, cavandosela egregiamente. Macbeth e la Lady proseguono nel loro delirio d’onnipotenza e trovano il tempo per una sveltina in ascensore.
Nel quarto atto lo sfondo è il Battersea di Londra per la scena corale di “Patria oppressa”, dove i profughi piangono le sorti della loro terra insanguinata dal tiranno. Macduff, il tenore buono che liquiderà il baritono cattivo, lo definisce “quel tigre”. Geniale è l’aria del protagonista, ormai conscio della sconfitta (“Pietà, rispetto, onore”). Alle sue spalle avvampa la foresta. Duello tra Macduff e l’usurpatore Macbeth, che muore maledicendo la corona. Poi cade sottoterra in ascensore, prima del coro che celebra la patria e invita alla speranza.