San Nicola, La Commedia di Dante e il potere
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Quasi una litania laica l’invocazione dei fedeli: «San Nicola nostro, amante dei forestieri». I bambini, forse, non riescono a comprendere come mai san Nicola preferisse i forestieri, nonostante l’attaccamento dei baresi. Come però accade in tutte le cose della vita, però, gli apparenti limiti si trasformano in pregi, in risorsa. Basta cambiare il punto di vista. Basta indossare gli occhiali giusti, e tutto s’illumina di luce nuova. San Nicola come campione, modello, esempio, tanto laico quanto religioso, di accoglienza. San Nicola (Babbo Natale) invita ad amare e ad accogliere tutti, a non chiudere i porti, a non chiudere il cuore. I Fedeli cantano «San Nicola va per mare». Mi permetto di modificare questo ritornello, aggiungendo «San Nicola va per mare, san Nicola viene per mare». Dunque, san Nicola ricorda a ciascuno di noi, ieri come oggi, che non esistono forestieri, che non esistono stranieri, che siamo tutti migranti, e tutti cittadini del mondo. Il mare, il nostro Mediterraneo, bagna tutte le terre, abbraccia tutte le terre, e tutti gli uomini. Nessuno escluso.
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Nel canto XX del Purgatorio, Dante fa esplicito riferimento a san Nicola di Mira, patrono di Bari, in una di quelle sue terzine fulminanti, che io paragono agli odierni tweet (vv. 31-3), perché esempio di scrittura veloce e fulminante, sintetica e arguta (con pochi caratteri, poco più di 100 battute, spazi bianchi inclusi):
Esso parlava ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.
[Quella voce (Esso) [Ugo Capeto] esaltava ancora il dono generoso (larghezza) che fece san Nicola alle fanciulle (pulcelle), perché convogliassero la loro giovinezza verso nozze onorate.]
Dante, in compagnia di Virgilio, si trova nella quinta cornice purgatoriale, occupata dalle anime penitenti degli avari e dei prodighi. Si tratta di un peccato capitale caratterizzato dall’amore smodato per i beni terreni (danaro e potere). Queste anime, che in vita si dimostrarono attaccate ai beni terreni, adesso, nella cornice del Purgatorio dantesco, giacciono sdraiate, con il viso rivolto a terra, le mani e i piedi legati, e piangono, recitando un versetto del Salmo 118. Durante il giorno, gridano esempi di generosità e di povertà. Durante la notte, invece, urlano esempi di avarizia punita. Nella scena, colui che parla è Ugo Capeto, re di Francia, tra il 987 e il 996, che Dante, erroneamente, presenta come il fondatore dei Capetingi.
Si tratta di un canto politico, poiché l’avarizia, per Dante, è la causa prima dei mali che affliggono (in modo tragico) il mondo civile. Al di sopra di questa quinta cornice, infatti, nel Purgatorio dantesco, i peccati che restano sono quelli appartenenti alla sfera privata (gola, lussuria). Non a caso, Dante, nei versi iniziali di questo canto XX del Purgatorio, richiama, con una certa violenza verbale, e con tono solenne, l’immagine della lupa, che era già stata centrale nel canto I dell’Inferno, all’inizio del viaggio (e dello sviamento di Dante), richiamando alla memoria del lettore l’immagine della bestia che lo aveva respinto, delle tre, proprio la bestia che, cioè, non lo aveva lasciato passare, la lupa:
Maledetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
[Pg, XX, 10-2]
[Sii maledetta, tu, lupa antica [avarizia], che fai più prede di tutte le altre bestie, per la tua fame insaziabile e profonda (sanza fine cupa)!]
Il racconto dantesco prosegue, subito dopo, con piglio e con stile profetici, per mezzo di una solenne invocazione rivolta al Cielo, affinché l’intervento divino ponga fine al potere della lupa. La lupa insaziabile, esattamente com’era stata già dipinta nel canto I dell’Inferno, compresa l’analogia con il vaticinio, che lì aveva pronunciato Virgilio, sull’arrivo di un Veltro, cioè, di un cane capace di ricacciare la lupa negli Inferi: «là onde ‘nvidia prima dipartilla», v. 111, lì dove cioè Lucifero (‘nvidia prima) l’aveva fatta uscire. È stata, dunque, colpa del Demonio («’nvidia prima», Lucifero, Signore del Male, antagonista di Dio) la presenza dell’invidia nel mondo; colpa di Lucifero, l’invidioso per eccellenza, che Dante, appunto, definisce come «’nvidia prima», contrapposto a Dio, che, superfluo precisarlo, al contrario, è «primo amore», come si legge in If. III, v. 6.
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Il canto XX del Purgatorio si apre e si chiude con il pianto salmodiante dei penitenti. In questo contesto devozionale, dunque, di forte tensione religiosa, si situa l’episodio di san Nicola di Mira, patrono di Bari, collocato da Dante tra gli esempi di povertà e di generosità (gli altri due esempi inseriti nel canto sono, rispettivamente, quello di Maria Vergine e Madre, che adagiò suo Figlio in un’umile mangiatoia, di una povera stalla; e quello di Fabrizio, il console romano che, per ben due volte, rifiutò cospicui doni dai nemici, morendo, poi, in povertà):
Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia
pietosamente piangere e lagnarsi [16-8]
[Noi camminavamo con passi lenti e brevi,
e io stavo attento alle anime, che sentivo
piangere e lamentarsi pietosamente;]
La citazione, come terzo esempio, di un episodio, peraltro, notissimo nell’agiografia della vita leggendaria di san Nicola, dà conferma del fatto che Dante, qui, abbia voluto sottolineare, attraverso questi tre esempi, non tanto un modello di vita povera, quanto, piuttosto, un modello di vita condotta all’insegna del totale distacco dai beni terreni, e dalla ricchezza (che invece ha caratterizzato, in senso negativo, la vita di ciascuno dei penitenti di questa quinta cornice, smodatamente attaccati proprio alla ricchezza e al potere).
San Nicola, vissuto tra il III e il IV secolo, era venerato in tutta la cristianità d’Oriente e d’Occidente, e la sua leggenda era stata largamente narrata e raffigurata, da pittori e da scrittori. Dante lo ricorda, nei versi citati prima, proprio per la sua generosità. Tale episodio viene narrato da Dante in modo fulminante, all’interno dello spazio metrico e sintattico di una sola terzina, in poco più di 100 caratteri (spazi bianchi inclusi). Si tratta di uno dei tanti tweet fulminanti della Commedia dantesca, capaci di pennellare la scena (il «visibile parlare» dei versi danteschi), e di imprimersi nelle mente di chi legge in modo duraturo. Com’è noto, san Nicola aveva saputo della difficoltà economica di una famiglia, e della insana intenzione del padre di tre belle fanciulle, mosso dalla disperazione, di indirizzarle verso la prostituzione, non potendo più garantir loro una dote nuziale, e una vita dignitosa. San Nicola, dunque, si recò, di notte, per ben tre volte, presso la loro abitazione, per donare, in modo anonimo, tre rispettivi sacchi colmi di monete, sufficienti a valere come dote nuziale per le tre ragazze, e, quindi, sufficienti a evitar loro il triste destino della prostituzione.
Per chi volesse leggere un intero percorso di approfondimento, da me tracciato, tra i vizi capitali e l’ordinamento purgatoriale dantesco, pubblicato sul sito della Treccani, potrebbe fare click sul seguente link:
https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/Vizi_1/2_Gargano.html
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Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» presso il Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica» a Foggia; «Didattica della lingua italiana» per l’Università di Foggia, e «Storia della lingua italiana» per l’Università di Stettino (Polonia). Docente di liceo, è autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «l’Attacco» di Foggia, e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.